di Harold Pinter
traduzione: Alessandra Serra
regia: Salvatore Tramacere
con Angela De Gaetano, Maria Rosaria Ponzetta,
Fabrizio Pugliese, Fabrizio Saccomanno
scene, luci e suono: Lucio Diana, Salvatore Tramacere
realizzazione scene: Mario Daniele

The dumb waiter, ovvero Il Calapranzi, scritto da Pinter nel 1957, fa parte della prima stagione drammaturgica dell'autore, dove quasi tutte le opere sono metafora di un solo meccanismo, quello della violenza: violenza sotterranea, quasi impalpabile, ma che manifesta con scatti improvvisi tutta la sua furia oppressiva.
Attraverso l'utilizzo di linguaggi periferici e invenzioni sceniche, ci si misura con un testo che ben si adatta alla nostra contemporaneità inquieta, spiata, telecomandata a tal punto da insidiare e minacciare l'individuo stesso.
Nella messa in scena il pubblico viene chiamato ad una partecipazione voyeristica, complice un meccanismo spaziale che guida e manipola la visione dello spettatore. Attraverso soluzioni tecnologiche e punti prospettici particolari, la percezione, sonora e visiva, dello spettatore lo porta a divenire complice pienamente partecipe del dramma, protagonista involontario di ciò che è chiamato a guardare: coinvolto e forse colpevole.
Nel prologo la scena, un luogo metallico, astratto, pulito e insieme simbolicamente 'sporcato', è abitata da due figure femminili, doppi astratti dei personaggi (Ben e Gus), che creano un enigma di forza e fragilità, di crudeltà e di sottile comicità. Le attese, la noia, le sequele interrogative si fanno movimento, corpo che danza in un vortice da musical noir.
Poi spariscono, assorbite dalla struttura scenica, e anche il pubblico viene invitato a seguirle, a attraversare lo spazio per ritrovarsi altrove, per spiare un'altro luogo, questa volta più realistico, ma di un realismo che contiene in sé tutto l'assurdo del testo Pinteriano.
Due letti in un "buco" di stanza, dove Ben e Gus aspettano gli ordini per un'azione criminale.  Pizzini calati dall'alto, istruzioni senza significato. Aspettano, dialogano nel loro linguaggio dialettale, calabrese quello di Ben, duro, essenziale, alla disperata ricerca di un ordine che non torna in nessun modo, salentino quello di Gus, stupito, tormentato, le interrogazioni che suonano nel prolungamento delle vocali. Aspettano, in un'attesa riempita di parole che rappresenta la violenza con un dialogare teso e scattante, costruito su ritmi in cui i silenzi contano quanto le battute.   
A cinquant'anni dalla sua stesura, Il Calapranzi continua a sfuggire alle maglie di un teatro di genere, ponendo interrogazioni senza tempo, che risuonano tra le mura di un sottosuolo. A chi toccherà stasera?